Villa Campiglia

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Rara immagine di Villa Campiglia, residenza dei Salvi che nell’Ottocento la trasformarono nell’attuale palazzo ex-municipio.

Scheda Storica

Certamente è la costruzione di maggior interesse di Albettone, edificata nel XV secolo dai nobili Campiglia e rifatta e ampliata nell’Ottocento; è stata sede del Municipio dal 1949 fino al 2011.

Appena passato il centro del paese, proseguendo verso est lungo la provinciale che porta al monte Castellaro e poi a Lovolo, la villa mostra il prospetto settentrionale alla strada, mentre il fronte opposto si affaccia sull’antico parco. Si sviluppa quindi seguendo l’andamento della via ed è costituita dall’aggregazione di più corpi, uniformati con gusto eclettico da Antonio Caregaro Negrin a partire dal 1842. Il noto architetto diede una nuova sistemazione agli interni, alle adiacenze, al giardino e ricostruì la chiesetta dei santi Filippo e Giacomo. Pertanto, dell’edificio originale, quattrocentesco, non rimane esternamente traccia.

Ne abbiamo comunque una breve descrizione in un inventario dei beni Maroli dell’anno 1725, conservato nell’archivio Salvi e riportato dal Morsolini. Nel documento si parla di “un palazzo dominicale con loggia inferiore e portico superiore e varie stanze terrene e superiori, caneva, tinazzara, granai e colombara, li coperti dei quali sono rovinati, e così in parte anche quelli del palazzo con molti balconi delle stanze superiori d’esso palazzo e senza scuri, o logorati, o mezzo disfatti, con la travatura del portico superiore deteriorata per le acque piovane… con corte, giardino, orto e brolo…con stalle di vaccarie e suoi portici et con stalla da cavalli et altre comodità…una chiesetta verso ponente col titolo de’ santi Filippo e Giacomo”. “Il complesso architettonico – scrive Bernardetta Ricatti nella sua pubblicazione dal titolo “Antonio Caregaro Negrin un architetto vicentino tra ecclettismo e liberty” – si articolava in una serie di adiacenze, ora sostituite da costruzioni moderne: logge, camere da ricevimento, biblioteca-studio, serra da palme, serre basse, serra tepidario, torre, loggia e abitazione, fabbricato rurale, chiesetta, tettoia e abitazione per i contadini, cortile rurale, vari ingressi carrozzabili. L’elemento di raccordo tra il palazzo e il parco pittoresco era costituito dal breve giardino, dalle serre e dalle torri che costituiscono la nota più interessante dell’intervento del Caregaro Negrin.

Altri elementi singolari sono la bifora in stile lombardesco della facciata verso il giardino, i fori circolari nel prospetto sulla strada pubblica e il bugnato gentile del pianterreno. La terrazza del piano superiore è stata restaurata nel 1879 con l’impiego di strutture in ferro e copertura lignea. Nell’interno si snoda elegante la scala ad un’unica rampa che collega il pianterreno con il primo piano, accompagnata da una ringhiera in ferro battuto a motivi floreali”.

Del grandioso complesso sono rimasti solo il palazzo e la chiesetta, mentre dell’antica bellezza del giardino e del parco romantico disegnato dallo stesso Caregaro non rimane traccia. Ci restano comunque le foto d’epoca e la descrizione del Morsolin che, nel ricordare il restauro della villa, esprime parole di lode per l’architetto che “seppe accoppiare in modo piacente le nuove adiacenze laterali, buona parte del secondo e tutto il piano superiore. E disegno di lui è pure il giardino, bello di montagnole, di viali e d’aiole, piantate a fiori e ombreggiate da sempreverdi e da alberi di alto fusto nostrani e stranieri; e la serra, l’aranciera, le gabbie delle scimmie e le pagode dei pappagalli”.

Quando il grande portone in ferro battuto, che immetteva alla villa, si apriva, il visitatore poteva ammirare tutta la magnificenza e la maestosità di questo giardino, spaziando con lo sguardo tra stupende fontane, viottoli ordinati, numerosissimi esemplari di fiori, palme, querce, magnolie, conifere delle specie più pregiate, una grande serra con le specie più rare e più belle di fiori, la caratteristica cedraia e la “casa delle scimmie”.

Il fronte nord del corpo principale è inquadrato da due torrioni neogotici e vi si aprono finestre arcuate in stile neoquattrocentesco. Alcuni archi ribassati lo legano all’ala orientale, mentre in quella ovest si apre un arco che dà accesso all’area del parco. Verso sud sono accostati in successione una serra, di cui rimane solamente la struttura in ghisa lavorata, un grande locale illuminato da bifore neogotiche con sopra una loggia retta da colonnine in ghisa, un torrione realizzato all’inizio del Novecento, un volume parallelepipedo con finestre a sguancio, concluso da una merlatura, e infine alcune casette di servizio con finestre centinate neoquattrocentesche.

Anche gli interni sono stati completamente rimaneggiati da Caregaro Negrin. Le ali laterali, completamente abbandonate, sono in rovina, i solai e la copertura sono pericolanti e le stanze inagibili. Il corpo centrale, accessibile da una modesta porta sul lato nord, è organizzato ai lati di un salone a tutta altezza su cui si affaccia un ballatoio in legno decorato che un tempo ospitava tele di Carpioni con temi mitologici oggi perdute. Da qui, attraverso corridoi, si accede alle poche stanze ancora abitabili del complesso. Dall’ingresso al piano terra si entra, sulla destra, nell’unico locale risparmiato dall’intervento di ristrutturazione ottocentesco: una piccola stanza illuminata solo da due alte finestre verso nord, decorata da un ciclo di affreschi della scuola del Veronese, attribuiti a Gian Antonio Fasolo e databili tra il 1560 e il 1570. Questo è l’unico elemento della villa citato nel decreto di vincolo dell’ottobre 1941. Gli affreschi, con scene di vita in villa raffiguranti la musica, il gioco e la caccia, sono divisi in settori da architetture dipinte e subirono, nel 1858, pesanti manomissioni ad opera di Giovanni Busato e solo recenti restauri ne hanno restituito il fascino e la bellezza.

La villa, studiata dalla dott.ssa Chiara Marin nella sua tesi di laurea – ebbe il suo momento di maggiore splendore come dimora estiva negli ultimi decenni del XVI secolo, proprio quando vi soggiornava la poetessa Maddalena, ed era luogo di ritrovo di letterati e umanisti, oltre che della confinante nobiltà vicentina e veneziana, che trascorrevano in villa il periodo estivo, in un clima molto ben rappresentato dal ciclo di affreschi che ancora si può ammirare all’interno.

Dopo la famiglia Campiglia, nel XVII secolo la villa è passata ad altri proprietari, innanzitutto al nobile Guido Sforza Gonzaga che aveva sposato Elena, l’unica figlia di Pier Maria Campiglia. Dopo la morte di Guido Gonzaga, avvenuta il 23 febbraio 1607 combattendo contro i Turchi, in Ungheria, i suoi eredi, oppressi dai debiti, vendettero la villa nel 1648 al nobile bresciano Marco Marolivi. Successivamente la proprietà passò a Federico Mazzucchelli che l’aveva ereditata nel 1725 dallo zio materno Pietro Maroli. Per effetto di questo lascito, il Mazzucchelli e i suoi discendenti poterono affiancare al proprio cognome quello di Maroli.

Verso la metà del Settecento soggiornò nella villa Giovanni Maria Mazzucchelli, erudito, storico e letterato di chiara fama, autore di un ponderoso “Dizionario degli scrittori italiani”, opera rimasta incompiuta per la sua prematura morte avvenuta il 19 novembre 1765.

Il complesso, nel corso del tempo, venne a perdere quello splendore che aveva caratterizzato gli anni della seconda metà del ‘500. Non si può parlare di decadenza, perché comunque la costruzione continua ad essere abitata – osserva Chiara Marin – ma si sa che già nella seconda metà del ‘700 la sua situazione non era più delle più felici. A parte ciò, la villa con le relative pertinenze (giardini, cappella, rustici) giunse abbastanza inalterata, per quanto ne sappiamo, fino al 1842, quando il celebre architetto Antonio Caregaro Negrin, dovendo adattare il complesso di edifici alle esigenze dei nuovi proprietari, i conti Salvi, decise di incorporare l’intera villa quattrocentesca in un enorme palazzo neogotico, con torri e merlature, aperto a sud su un vasto giardino.

Successivamente l’immobile passò dai Salvi ai Negri, poi Negri De Salvi per il matrimonio tra il conte Eugenio Negri e la contessa Giovanna De Salvi. Nel secolo scorso, in seguito alla morte del conte Edoardo Negri De Salvi, avvenuta a Vicenza il 14 febbraio 1937, detti beni andarono per successione alla contessa Camilla Negri De Salvi maritata nel 1913 al barone Alfonso Rejna Majorana, come risulta dal testamento olografo del 20 giugno 1935. L’11 novembre 1939 i beni furono acquistati dal comm. Albano Michelazzo che mantenne la villa per una decina d’anni, poi, nel 1949 la cedette al Comune di Albettone per 15 milioni di lire.

Affresco di Nettuno
Affresco di Marte

Di fatto la villa quattrocentesca viene sconvolta, e soltanto una stanza al pianterreno è stata salvata da questo radicale smantellamento, una piccola sala illuminata solo da due alte finestre verso nord, le quali hanno subito leggere modificazioni per essere allineate con quelle della nuova facciata gotica.

All’interno sono ancora oggi visibili gli affreschi cinquecenteschi attribuiti a Giovanni Antonio Fasolo, restaurati con pesanti manomissioni nel 1856 dal pittore Giovanni Busato, il quale ha rifatto anche il soffitto, eliminando l’originale impalcatura lignea.

Il Morsolin puntualizza che “i dipinti, mal custoditi… erano se non logorati, almeno smarriti. Gaetano Maccà, che li avea visitati, dichiarava di avervi incontrato i più deplorevoli guasti. Il merito d’un pieno ristoramento è dovuto al conte Giambattista Salvi, L’opera fu affidata a Giovanni Busato che seppe restituire non solo alla primitiva evidenza gli antichi affreschi, ma armonizzarne il soffitto già guasto, col dipingervi Amore in atto di gettare una freccia contro un uccello, legato ad una corda, stretta dalla mano di un paffuto genietto”.

Purtroppo, si capì successivamente che il Busato aveva compromesso il ciclo, perché gli affreschi
erano stati ripassati con colori a tempera, soprattutto quelli del registro inferiore.
Nonostante l’ambiente sia caratterizzato da una forte umidità, negli anni ‘80 si è proceduto con un nuovo intervento di ripristino, curato dalla Soprintendenza alle Belle Arti di Venezia, che ha portato alla rimozione delle ridipinture, restituendo il loro fascino originale.

A condurci nella lettura pittorica degli affreschi è la studiosa Giovanna Dalla Pozza Peruffo che in un suo saggio ne ha proposto una nuova lettura iconografica. Innanzitutto spiega che le scene vanno analizzate in un contesto che mette in rapporto i due registri narrativi impostati su due fasce: in quella inferiore, all’altezza del nostro sguardo, il mondo degli uomini colti in momenti di svago della “vita in villa”; in quella superiore, l’articolata corrispondenza con le divinità dell’Olimpo, rappresentate sulle sovrapporte e sul camino della sala, che sovrintendono alle umane attività; il tutto rallegrato da giocosi paffuti puttini altalenanti al di sopra delle cornici sui corposi festoni di foglie e di frutta.

Comincia col descrivere la parete est che alterna la scena con tre baldanzosi giovani suonatori di flauto a quella di due fanciulle occupate a giocare a tric trac insieme ad un elegante giovanotto, mentre sulle sovrapporte appaiono un vecchio che si riscalda al tepore della fiamma e un possente Nettuno col tridente, seduto sul dorso di un pesce-mostro. Sulla parete sud si assiste ad una scena di concerto che coinvolge due uomini maturi, rispettivamente alla viola da gamba e al flauto grosso Ganassi, che accompagnano due fanciulle, l’una che suona la spinetta, l’altra intenta all’ascolto, mentre vicina si apre una porta da cui entra, spostando una tenda, un disinvolto gentiluomo. Sulla sovrapporta sono dipinti Cerere e Vulcano, connotati rispettivamente dal mannello di spighe tra le mani, dalla tenaglia e dal soffietto, simbolo questo di un artefice del ferro, ed in simmetria sull’altra sovrapporta un Marte seduto sul carro da guerra, raffigurato mentre incorona con l’alloro una divinità femminile, forse la musa Euterpe, protettrice della musica.

Sulla sovrapporta simmetrica al riquadro con Nettuno, Giunone che tiene tra le braccia un bianco pavone, affiancata da una Pandora appoggiata al capiente vaso. Sulla parete ovest completa, insieme alla Diana con frecce, faretra e levriero, posta sopra il caminetto a nord, l’Olimpo protettore dell’umano operare. Il serto di spighe che Vulcano tiene tra le mani per incoronare Cerere, e quello di alloro che Marte offre alla Musa – osserva Dalla Pozza Peruffo – fanno certamente pensare all’esaltazione della supremazia delle Arti e dell’Agricoltura sulla guerra e sulle attività manuali, mentre le altre divinità simboleggiano il Fuoco (il vecchio che si riscalda), l’Acqua (il Nettuno con tridente e mostro marino), l’Aria (il pavone di Giunone), cioè i quattro elementi aristotelici, insieme alla Terra, forse interpretabile come Pandora per la presenza del grande vaso con cui la dea, fatta nascere proprio da un impasto di argilla, era scesa tra gli uomini sposando Epimeteo.

La parete ovest, la più complessa, articolata su due aperture dell’illusiva loggia, propone una diversa scena di concerto, di valore tutto cinquecentesco neoplatonico, con una fanciulla che suona il liuto, accompagnata da un giovane impegnato negli accordi del violone ad arco, e da una seconda fanciulla che intona il suo canto tenendo tra le mani lo spartito con l’intavolatura. Sullo sfondo si nota un paesaggio che spazia fino a rilevare dei colli che ad un primo vaglio dell’inquadratura, nel primo rilievo abbastanza piano, qualcuno vi legge il colle di Lovertino, mentre nel secondo rilievo, un po’ più evidente si ipotizzano i colli Euganei. Nella quarta scena è raffigurato il gioco delle carte con due gentiluomini maturi e una dama, dalle grazie piene e riposate, che diventano emblematici della serena pienezza degli anni. Appare evidente quindi – puntualizza Dalla Pozza Peruffo – che il Fasolo si fa cantore, attraverso la narrazione pittorica, del pensiero predominante della cultura veneta del Cinquecento, in cui si specchia il modus vivendi di un’aristocrazia terriera colta e raffinata, riflesso di un equilibrio esistenziale incentrato sull’accettazione delle eterne leggi della natura e della vita, nella costante aspirazione alla bellezza ed armonia.

Il prof. Cevese mette in luce che i ritratti dei personaggi, forse le migliori espressioni pittoriche del Fasolo, sono ben riusciti soprattutto gli incarnati, gli sguardi sereni, tranquilli dei personaggi, che spesso ritraevano i committenti, i proprietari della villa, come pure risultano di buona fattura l’abbigliamento, le acconciature, i monili e i costumi.

Nel 2006 sono stati portati a termine i lavori di sistemazione del tetto della villa con un impegno di spesa di 340mila euro da parte dell’Amministrazione comunale. L’intervento ha permesso, con un innalzamento delle capriate di circa 35 cm., di recuperare un’ampia superficie, più di mille metri quadrati, prima inagibile, che si intendeva destinare a luogo di incontro e di conferenze.

Si è provveduto inoltre alla tinteggiatura del vano scale, del pianerottolo e degli uffici, che ha conferito agli ambienti una luce nuova, valorizzando ulteriormente l’edificio.

Due anni dopo, nel 2008, è stata restaurata la facciata nord della villa, restituita al suo antico splendore.

L’intervento, costato 250mila euro, ha ripristinato sulla parete tra le due torri (corrispondente alla sede municipale) il disegno originale con colorazione a fasce rosse e giallo ocra, mentre sulle due ali (allora adibite a magazzino comunale e a sede della Pro loco) è stato applicato un intonaco giallo.

Successivamente è stata restaurata la facciata sud che un tempo si apriva verso il parco.