Chiesetta di San Vito

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Scheda Storica

Secondo la storiografia locale, anteriore al Mille è la chiesa di San Vito di Lovertino appartenente ai Benedettini di Nonantola che abitavano nel vicino monastero di San Silvestro, dal quale, con ogni probabilità, partirono i primi monaci che giunsero a Noventa e vi eressero una loro cappella dedicata anche in questo caso a San Vito.
Il sacello è intitolato al santo protomartire Vito, il cui culto, assai caro al mondo agricolo avanti il Mille, era stato introdotto dai Benedettini e dai Longobardi cristianizzati. Nel Vicentino – osserva lo studioso Reato – la diffusione di questo culto, abbinato più tardi con quello dei santi Modesto e Crescenzia, segue di pari passo la seconda ondata benedettina promossa dal vescovo Rodolfo (secolo X): basti pensare che a S. Vito in Vicenza fu dedicata nel secolo IX un’abbazia e che in seguito lo stesso titolo sostituì quello dei SS. Felice e Fortunato e fu attribuito alle parrocchie di Longare (Secula), Bassano-San Vito, Gambugliano, Montecchio Precalcino, Brendola-S. Vito, S. Vito di Leguzzano, Noventa Vicentina e a cinque oratori (Marostica-S. Maria, Breganze, Santorso, Barbarano e Lovertino).

La parte più interessante del sacello è l’abside, che è quanto rimane della chiesa primitiva. Il cultore d’arte Antonio Verlato ha sostenuto che sia sorto quale piccola cella monastica, filiazione del complesso benedettino di San Silvestro. “l’absidina protocristiana, perfettamente orientata, una delle pochissime rimasteci, assieme ad alcuni lacerti in pietra di epoca longobarda a vimini intrecciati, finora inediti, l’apparato murario costituito da irregolari conci in pietra calcarea inframezzata da frammenti di mattoni romani – osserva Verlato – rappresentano un punto fondamentale per la storia delle origini del Cristianesimo nel territorio vicentino. La facciata, con piccolo campanile a vela, è stata alterata nella prima metà del Quattrocento, come dimostrerebbe un bel monogramma di Cristo scolpito sull’architrave della porta centrale. Bella è la mensa monolitica dell’altare, sostenuta da un affusto di colonna marmorea di epoca tardo romana”.

Anche Regina Canova Dal Zio si è occupata della chiesetta, soffermandosi sull’abside “orientata, semicircolare, alta circa m. 4, del diametro di m. 3,50 e della profondità di circa m. 1,50. Essa è molto più piccola di quanto comporterebbe la chiesa attuale, la quale è ad aula unica (m. 11×6) e dalla struttura dei suoi muri e dalla cornice a denti a sega del suo tetto – secondo la studiosa – dovrebbe risalire a circa cinque-sei secoli fa. Molto più antica è quindi l’abside che potrebbe datarsi all’VIII-IX secolo”.
Secondo Ettore Napione la sua forma attuale risente probabilmente di una ricostruzione del XV secolo (è ricordata e beneficata nel testamento di G. Alberto Pigafetta del 5 aprile 1480) e di rimaneggiamenti successivi. Di opinione diversa è lo studioso Antonio Diano, secondo il quale non vi è alcun motivo archeologicamente o filologicamente fondato per ritenere che la struttura superstite di questa chiesa sia assegnabile ad epoca altomedievale. Egli sostiene che la scatola muraria sia riferibile al Trecento (secolo XIV), mentre l’absidiola semicircolare, in parte ricostruita ed integrata, in pianta e in alzato, corrisponderebbe ad un originario elevato genericamente romanico, tra il XII e il XIII secolo.

La chiesa appartenne per lungo tempo ai Pigafetta che, in più occasioni, previdero nelle loro disposizioni testamentarie somme di denaro per la sua manutenzione.

Il 24 settembre 1745 mons. Giuseppe Troncato visitò l’oratorio “sub titolo S.S. Viti e Modesti de jure Nobb. Haeredum Pigafetta”. Nella relazione del sopralluogo si legge come egli, convisitatore, esaminato l’unico altare (di legno), tra altre disposizioni “mandavit etiam supradictorum Sanctorum imagines decentius pingi, praesentes suspendens”. Ordinò, dunque, di dipingere più decorosamente le immagini (probabilmente erano ad affresco) dei titolari, con la sospensione di quelle che li raffiguravano.
Due anni dopo, nel 1747, in esecuzione delle disposizioni vescovili, Atalanta Godi Piovene, che aveva ereditato l’oratorio e vaste proprietà dalla contessa Euriema Pigafetta, sua ava materna, lasciava un legato di 24 ducati affinché fosse fatta dipingere una pala per la sua chiesetta. L’incarico fu dato al pittore vicentino Costantino Pasqualotto che dipinse una tela raffigurante i santi Vito e Modesto, che è stata restaurata nel 1996 ed è ancora presente all’interno del sacello. “Dipinto bellissimo e di alta qualità, della piena maturità del Pasqualotto – lo definì Verlato. Collocato sulla parete di destra, rappresenta i santi Vito e Modesto mentre ricevono la palma, simbolo di martirio, da due angeli che scendono dal cielo in vortice di ali e di vesti. Al centro, in alto, adagiata su nembi, assiste all’evento la Vergine con il Bambino inondati da una luce dorata.

La chiesetta negli ultimi decenni aveva conosciuto un degrado che appariva irreversibile, al punto che era crollato il tetto; poche, quindi, erano le speranze di vedere recuperato questo piccolo gioiello d’arte e di fede che nel secolo scorso apparteneva alla famiglia Dal Pozzo. E invece, grazie alla sensibilità di tale famiglia (Gio. Battista e Gioconda hanno custodito la pala del Pasqualotto e alcuni oggetti di culto, tra cui una campanella e un crocifisso), alla segnalazione di Guelfo Malandrin, all’impegno dell’allora assessore Bruno Frigo, all’interessamento del soprintendente ai beni ambientali di Verona Loris Fontana e di Antonio Verlato, allora presidente di Italia Nostra, e all’intervento del sindaco De Boni che nel 1992 dispose con urgenza l’acquisto del sacello e dell’area circostante, è stato possibile realizzare i lavori di restauro e restituire alla comunità di Lovertino un pezzo della sua storia. La chiesetta, infatti, il 12 giugno 1994, è stata inaugurata e benedetta dal vescovo mons. Pietro Nonis in occasione della sua visita pastorale alla parrocchia di Lovertino.